L’arte, questo continuo e fluido passaggio da un tempo all’altro, da una forma all’altra, questo continuo tagliare limiti e barriere cosicché il pennello possa uscire dai confini circostanti del reale e possa sentirsi libero di scavare il movimento intangibile dell’infinito, tra vertigine e tensione.
Fare arte significa guardare in fondo alla propria anima con sincerità, non temere di mettere in discussione se stessi, e per fare questo è necessario possedere coraggio. Non avere paura di attraversare i territori più lontani e i luoghi dove non si è mai stati, là dove le proprie certezze crollano. Perché la pittura è soprattutto un campo di indagine, e indaga di quanto più scomodo esiste al mondo: l’animo umano con le sue paure e le sue incertezze, quei timori che di solito vorremmo nascondere sotto il tappeto della nostra vita quotidiana. La paura della povertà emotiva che popola le persone e la società.
Ma la vita non può essere, in alcun modo, rassegnata e malinconica contemplazione del divenire che si presenta in tutta la sua imprevedibilità; compito dell’artista è agire, l’accettazione del caos che permette ogni volta di continuare a vivere, di riprendere, a ogni passo, il proprio cammino, e dipingendo sceglie di essere se stesso. E vale sempre la pena di dipingere, anche quando non c’è risultato per gli altri, per la propria visione, cercando sempre se stessi, perché non si cerca che questo.
Poiché spesso la vita ci appare assurda e priva di significato, l’esistenza irrazionale ed estranea a noi stessi, l’artista non cerca il significato della vita, ma l’intensità della vita.
Davanti alla tela il pittore è un animale libero senza nome e senza regole, e il quadro diventa un corpo che porta i segni della sua esperienza. Per tale motivo credo che una tela non vada tanto spiegata, ma vada piuttosto sentita, vissuta, non vi è necessariamente un significato nascosto da cercare dietro l’opera, lo stesso Monet sosteneva che nell’arte l’importante non è capire, ma l’impatto emotivo sul soggetto. In questo consiste l’essenza dell’arte, nella sensazione di ebbrezza e nella sua forza passionale.
La pittura d’altronde è una scarica di tensioni interiori, sogni, fantasie, che mescolandosi con la realtà fanno emergere il senso dell’interiorità umana, formando una poetica introspettiva.
I personaggi che popolano le mie tele si trovano quasi sempre isolati (dai propri luoghi e a volte dalla propria umanità) e dunque più vulnerabili ai processi interiori.
Si trovano spesso in una situazione di estraneità rispetto al mondo circostante- a volte perfino da loro stessi- perché protagonisti di un’esistenza che non ha caratteri definiti, ma è la produzione e trasformazione dei propri contorni e della propria essenza.
A volte possono risultare spiazzanti perché essi stessi sono spiazzati, si sentono a disagio e non possiedono alcuna certezza.
L’unico posto certo è il passato, là dove premere il cuore nel ricordo. Il luogo dell’infanzia, quella condizione irrecuperabile dove le cose accadono per la prima volta, e traggono valore da questa unicità che li solleva fuori dal tempo e li colloca fuori dallo spazio.
Non è certo un caso che nelle mie tele appaiano di frequente figure di bambini, adolescenti, e persino animali, proprio perché rappresentano la purezza e appartengono a quel mondo primitivo capace di esprimersi liberamente, senza filtri razionali, e perché nessun bambino e nessun animale si è mai stupito di esistere, perciò riescono a vivere in completa armonia il proprio tempo e il proprio spazio, gratuitamente, condizione che all’uomo adulto non è consentito più fare, poiché vive nella continua ricerca dell’utile.
Poiché a ogni uomo è data la libertà di scelta, l’artista si assume la libertà di scegliere di esprimere se stesso, trasformando in opera d’arte la concezione sensibile della sua esperienza. L’artista dunque è una possibilità, e l’opera il contenuto di questa possibilità.
Il processo creativo da qualunque parte arrivi, che esso sia un sentimento, una sensazione, un ricordo, un fatto avvenuto, deve necessariamente trasformarsi in un’idea, e questa deve abitarmi nella mente finché i suoi contorni non mi diventano familiari. Dunque, dopo le prime bozze mi metto davanti al cavalletto o parete che trovo.
Non vivo ispirazioni istantanee, devo conviverci con un quadro prima di realizzarlo, non sono un istintivo, semmai lo divento durante l’esecuzione, a lavoro in corso; per questa ragione quasi sempre, anzi sempre, il quadro finito non corrisponde mai all’idea originaria, perché lavorandoci subisce il flusso e l’energia del divenire, del farsi, e dei continui mutamenti, e non si arriva mai così tanto lontano come quando non si sa dove si va.
Infine accade che si è realizzato il quadro che si è fatto, e non quello che alle origini si è pensato, ed il risultato sorprende lo stesso autore.
Per tale ragione ritengo giusto che un quadro al di fuori di chi lo realizzi possa assolutamente mutare sembianze e di conseguenza significato agli occhi dello spettatore che lo riceve, credo sia questa la magia dell’arte, appartenere a tutti in maniera diversa e uguale, e mai vera per nessuno, neppure per l’autore.
Per quanto riguarda la parte prettamente tecnica, prediligo di gran lunga il segno al colore. Infatti, come si può ben vedere non possiedo una tavolozza ricca, anzi è piuttosto scarna, essenziale.
Curo maggiormente il disegno, la struttura ossea, quella che considero l’anima del quadro, che non la materia pittorica che lo riveste. E lo stesso colore spesso lo impiego attraverso i segni.
Non a caso considero come mio primo punto di riferimento Alberto Giacometti, con i suoi segni, i suoi grigi, le sue figure così esili dall’anima fragile, che se solo qualcuno osasse guardarle un po’ di più del dovuto rischierebbero di crollargli addosso. E Francis Bacon con i suoi protagonisti inquietanti, collocati in stanze spoglie e solitarie, distaccandomi però dalla sua crudezza e violenta allucinazione, e strizzando di tanto in tanto l’occhio a Marc Chagall, almeno per quanto riguarda la sua poetica ricca di ingenuità infantile e l’approccio religioso alla pittura. Si, perché pur essendo agnostico, ho un senso quasi religioso di fare pittura. Così come il credente si reca in chiesa ed affida la propria anima a Dio, così il pittore confessa la propria davanti alla sua tela.